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Speciale per Mosaico Italiano di Rio
Coccodrillo per Gina Galeffi

di Meri Lao, Roma

30 luglio 2005 In gergo giornalistico si denomina coccodrillo il pezzo scritto su una personalità vivente, pronto da dare alle stampe (con qualche ritocco di ultimo momento) alla morte della stessa. Fino a poco tempo fa ignoravo che questi pezzi fossero preconfezionati, forse perché il primo che ho letto dichiarato tale è stato il “Coccodrillo per mio padre” che la mia amica Delfina ha scritto per Vittorio Metz, il celebre comico, raccogliendone gli scritti postumi. Grondante di commozione e ironia, solo per antifrasi poteva richiamare il rettile dalle lacrime finte e tardive. È con questo stato d’animo che mi accingo a stilarne uno per Gina Galeffi. Un coccodrillo per nulla ortodosso. L’idea l’avrebbe sicuramente divertita.

Non sta a me sapere se avesse la capacità di convivere con gli altri. So solo che era curiosa dell’altro: del laico, del credente, del superstizioso, dell’intellettuale, del semplice, dell’irregolare, dell’integrato, del talentuoso, del qualunquista, del rivoluzionario, del caso disperato. Riusciva a rapportarsi con tutti, con grande libertà, priva di intolleranze. Lo stesso atteggiamento lo riservava negli ultimi tempi anche con l’altra Gina, quella che contrariamente al suo solito aveva qualche défaillance della memoria e si ripeteva nella conversazione; se qualcuno glielo faceva notare, rispondeva “E che male c’è a ripetere? Ripeto le volte che mi pare.”

Come sono venuta a contatto con lei? Raccontavo al linguista Eugenio Coseriu, professore all’Università di Montevideo (ai tempi della mia formazione), di una lunga tournée di concerti e conferenze che mi era stata organizzata in America Latina, e lamentavo l’assenza di Bahia. Lui mi disse: “Scrivi a nome mio ai Galeffi, Romano è un mio collega, Gina la moglie dirige la Dante Alighieri. vedrai che riuscirai ad andare a Bahia”.

Fu così che la prima città brasiliana della tournée fu Salvador de Bahia. Leggo, nella documentazione cartacea che ha resistito più ai traslochi transoceanici che alle macchie dell’insidiosa gomma arabica: “Associação Cultural Italo Brasileira – Dante Alighieri – Salvador – Convite para o recital da pianista Meri Franco Lao – Quarta-feira, 22 de agosto de 1962, Reitoria da Universidade da Bahia”. E di seguito il programma tutto italiano, confezionato non proprio per strappare l’applauso del pubblico. La prima parte di autori contemporanei: 4 Invenzioni di Goffredo Detrassi, 2 Studi Dodecafonici di Roman Vlad, Ricercare e Toccata di Gino Gorini; la seconda, di opere dell’Ottocento come la Sonata in Sol Minore “Didone Abbandonata” di Muzio Clementi e i “Péchés de Vieillesse” di Gioacchino Rossini. Mi furono richiesti molti bis, per i quali ricorsi a Scarlatti e Paradisi.

Coseriu mi aveva avvertito: “I Galeffi sono un po’ strani” (oggi si direbbe assai particolari o muito alternativos), “pensa che quando si sono sposati, piuttosto tardi, entrambi erano vergini!”.  Ci fu simpatia a prima vista. Il récital agì da suggello di una bellissima amicizia. Quella stessa sera mi portarono a una seduta di candomblé: avevano ottenuto un’autorizzazione speciale dal pai, che non ammetteva la presenza di turisti. Mi colpì il sorriso di Gina, il suo cenno con la testa quando mi invitarono alla danza, le sue spiegazioni da esperta, il suo fondamentale distacco. Quante volte l’avrei ricordata così, paragonando il suo atteggiamento a quello mio nei confronti del tango: adesione alla sostanza, rifiuto della passione fanatica, dell’esotico. L’indomani Gina mi portò a casa sua, un viavai di gente in cerca di aiuto, il seduttore della ragazza madre cui aveva trovato lavoro e ora doveva convincere a sposarla, quello che aveva bisogno di essere operato, una quantità di figliocci che non si distinguevano dai figli, no, non è vero: i figli, compostissimi, erano quei due maschietti e quelle due femminucce dagli occhi umidi che guardavano me, la giovane donna altissima dall’abito da sera sgargiante, che girava il mondo suonando il piano, che ripartiva con un carico di berimbau, agogó, aguê, caxixi, che parlava di cose strane…

Fu un’amicizia fondata sulla comprensione e l’amore per l’altro (scusatemi se torno al punto di prima), nonostante le incoincidenze nel carattere e nelle scelte, amicizia che si sarebbe tenuta accesa a diecimila chilometri di distanza, senza bisogno di attizzarla coi normali e solerti gesti di convenevolezza.

Gina l’ho rivista casualmente a Roma, da Patrizia Giancotti.  Che sorpresa, la mia giovane e recente amica cui mi avevano legato le Sirene, era anche amica sua. Gina mi disse che Romano era deceduto da poco, parlammo della morte, di come la recepiva in quanto religiosa, dei paradisi di cartapesta, della sua serenità. “Io sono sempre pronta, non ho il minimo timore, né per quello che lascio, né per quello cui andrò incontro.” L’ho vista altre volte ancora a Roma, in occasione di manifestazioni brasiliane, e alla conferenza dell’altra mia cara Luciana Picchio Stegagno, anche lei conosciuta da decenni. Lì parlammo ancora della morte: sarà che le amicizie diradate, ma non sradicate, si alimentano di questi temi? Le dissi di mia madre, che era morta a Roma il 2 febbraio dell’’83, nella stessa data di mio padre, che era morto a Montevideo il 2 febbraio del ’75, proprio il giorno di Yemanjá. Le diedi il mio libro sulle Sirene, che lei sfogliò attentamente, guardandomi ogni tanto negli occhi come per dire “Non mi hai delusa” (o forse me l’ha detto). Rimanemmo che sarei andata a Salvador, appena possibile, a celebrare i miei genitori. Lei mi avrebbe ospitato con gioia.

Tornai a Bahia quarant’anni dopo quella volta del concerto. Era il 02.02.2002, numero quasi palindromo, magico. Portai una sorta di locandina-ricordo in rigoroso seppia: due foto alla Reitoria, una al piano, mentre suonavo, l’altra in cui il figlio Dante, che allora aveva otto anni, mi consegnava uno splendido mazzo di fiori tropicali, e altre foto scattate all’aeroporto Santo Amaro de Ipitanga, dove Gina e Romano mi avevano accompagnato per proseguire la tournée.

Sia Gina, sia io, sapevamo che quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo incontrate. Per difetto suo o per difetto mio.

È stato una festa. La figlia Eugenia e Mauro Porru mi hanno fatto tenere una conferenza (sul tango) all’Università: fortunatamente ho abbandonato la carriera di pianista, altrimenti mi avrebbero messo a disposizione una sala da concerti megagalattica. Nella sede della Dante, presieduta da Dante Augusto Galeffi (il bimbo dei fiori) ho mostrato il nuovo libro, con foto a colori, e abbiamo fondato una sorta di associazione (senza statuto) di Amici della Sirena. Mi hanno regalato una scultura in papier maché di Roberto Barr in cui Yemanjá ha il corpo ricoperto di spine, come  una rosa, e i capelli biondi con le treccine rasta. Abbiamo mangiato, abbiamo riso, siamo state a casa della cognata sulla spiaggia dalla sabbia finissima e le palme che non amano stare in piedi e crescono rasente il suolo. Eppoi a Bom Fim, e ancora in casa a discutere su una traduzione, a lavorare sulla memoria, a intessere parole e stili di vita.

La figlia Elisa mi è stata accanto alla Festa propriamente detta nella spiaggia del Rio Vermelho. Ho lanciato una spiga di tuberose in mare. Sono i fiori cari a Yemanjá e anche quelli rappresentativi del segno dello Scorpione, nascono a novembre, come i miei. L’ho fatto pensando ai miei  scorpionacci anarchici e mangiapreti fino all’ultimo, che a me figlia unica mi avevano giocato quel tiro mancino uscendo di scena il giorno della mia sirena più carica di senso. I fiori sono scomparsi fra le onde. Sono stati graditi dalla Sirena. Lo commentavo con Gina, con infinita tenerezza.

Ciao, Gina. È toccato a me farti il coccodrillo.